I Vini a Bologna ed in Regione

I VINI A BOLOGNA ED IN REGIONE NEL XVII°  SEC

Durante i convitti della nobiltà e dei notabili bolognesi del ‘600, sulle tavole erano presenti i vini provenienti dalle più svariate zone, sia locali dai colli bononiensi, dalle province limitrofe se non addirittura dall’estero: questo era dovuto, soprattutto, per rimarcare l’importanza e grandezza del casato, per cui vi erano veramente dei famosi ed importanti vini.
Particolarmente apprezzati erano i noti vini, soprattutto i prelibati rossi, delle colline di Firenze e della Toscana in genere, che venivano appositamente importati. Come già accennato, non mancavano vini di altre zone, specialmente francesi nonché, ovviamente appunto, quelli di produzioni locali che ebbero, fra i suoi estimatori, non pochi viaggiatori italiani e stranieri, ma il primato di “presenza e consumo”, sia per qualità che per quantità spetta alla classica ’albana’.
 Vincenzo Tanara, gastronomo ed agronomo, nella sua celebre opera “Economia del cittadino in villa” del 1644, afferma che tale uva, oltre “ … a produrre un vino delicato, è ancor la più universale che ci sia: non vuole molt’acqua, matura presto e bisogna vendemmiarla per tempo cominciando da grappoli più bassi”.
La tipologia più pregiata, chiamata “ALBANA RARA”, era quella dal grappolo con acini radi e piccoli, mentre dall’altra, “ … spessa di grane detta ‘albanone’ o ‘bettara … “, si otteneva un vino più scadente e facilmente alterabile, tanto da non essere considerata né dalla nobiltà e tanto meno dai grandi proprietari e destinata principalmente al popolino: in altre parole, il “signore” beveva buon vino, il popolino, appunto, quello che capitava, spesse volte vini al limite del bevibile!
Buona considerazione vi era anche per il “TREBBIANO”, in quanto considerato “ … vino generoso e buono che non si guasta su viti e rare volte nella botte, mentre matura tardi, né è danneggiato dai ladri per non essere mangiabile, sopporta acqua assai … “, [cioè poteva essere mescolato con una buona dose d’acqua], “ … ma il suo vino non viene molto chiaro, restando molto torbido e perciò ‘torbiano’ si chiama”.
Era adattissimo a venir ‘tagliato’ col “LEURINO”, un’uva di cui si è ormai perso il ricordo, diventando così sufficientemente limpido e più difficilmente attaccato dall’acidità e dall’acetificazione.
 Oltre a questi due vitigni, che andavano per la maggiore nella nostra regione, Tanara ne elenca molti altri, oggi in gran parte estinti, non senza avvertire che essi erano chiamati in modo diverso a seconda delle varie contrade italiane “ … e circa la loro qualità può essere che in un altro sito riescano differente più dell’altro”.                                                                                        
Il primo ad essere ricordato, è il “MONTENEGRO” da cui si ricava un vino ‘dolce e saporito’, ma che non si poteva lasciare sulla vite fino a completa maturazione giacchè ” … essendo buono da mangiare e servendosi assai per il verno, viene facilmente rubato. Questo vino si lega perfettamente con l’albana, aggiungendo l’uno il saporito, al dolce dell’altro”.
Vino ottimo, leggermente abboccato e molto profumato, si producevano dalle uve di “checca, angela, paradisa, vernazza, cioè la vernaccia, schiavone e la lugliatichella”, note soprattutto come uve da tavola e solitamente si conservavano su apposite stuoie o appese al soffitto in cantina, per essere poi consumate durante l’inverno ed in primavera. Inoltre, alimentavano un fiorente mercato di esportazione con Venezia ed altre regioni italiane.
Dalle uve di “leonza, barbosino, leutino, bagarella e forcella”, si produceva un vino “ ... picciolo ed insipido da bere solo allungato con l’acqua … “.
“Vino brusco, picciolo e assai durevole … “ si otteneva dall’uva “pomoria o pellegrina”. Si coltivava anche l’uva “lupina”, la quale purtroppo godeva di scarsa considerazione, in quanto Tanara la definiva “ … la più trista di tutte le uve poiché il suo vino non viene mai chiaro e, avanti a maggio, si guasta e fa guasta l’altra uva ove c’entra per compagnia”.
Chiude la rassegna delle uve bianche, il “MOSCATELLO” dal quale si ricavava, nel bolognese e nelle zone limitrofe, una “ … bevanda dolce, odorifera e gustosa ed è tanto gagliarda che, se non mistificasse col l’albana, si potria paragonare nella sua grandezza e forza, al vin di Candia, ma l’albana, moderando la sua ferocia, lo rende più dilicato”.
 Fra le uve a bacca nera, la prima citazione è riservata all’ALBANA NERA, la quale tuttavia presentava il notevole difetto di svinare poco, in quanto è formata da acini molte volte privi di polpa. Al contrario, dall’uva “sampiera”, si otteneva un vino abbondante e gradevole, mentre la “bernacchina” e la “milanella” somministravano un vino “piccolo ma dolce” e la “tosca” che dava un vino “ ... rossetto, picciolo, non molto dolce, piccante, grazioso e sanissimo”.
Dalle uve di “guiardesca” e dal “coccobergamo”, si traeva un vino brusco di lungo affinamento, mentre l’uva “lambrusca”  infine, dava, se vendemmiata tardi, una bevanda “ ... asprigna, piccante e rara ed è singolar dote di questa vite che nel selvatico ancor riesca perfetta”.
La regina delle uve a bacca nera restava comunque l’UVA D’ORO, in quanto produceva un “ … vino sano, durabile e assai generoso, tollerava bene la pioggia, migliorava alquanto a rimanere a terra ammassata e quando pare marcia allora è buona”. Tanara conclude osservando che questa uva era la stessa con la quale in Francia producevano il “ … vino Claretto’, quale si porta per nettare singolare in tutto il mondo”.
 
Come si è potuto notare, siamo nel XVII° sec, i vini ottenuti da vitigni presenti nell’area bolognese e quelli provenienti da altre zone, la maggior parte sono oggigiorno, purtroppo, estinti, con notevole rammarico per una viticoltura locale di pregio per la rivalutazione dei ceppi autoctoni, che per storicità e cultura, avrebbero degnamente manifestato le rare peculiarità, piacevolezze e “maritato” sapientemente le ricche e succulente portate della gustosa cucina bolognese e non solo.

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