EMILIA & ROMAGNA: QUALE RISTORAZIONE?

EMILIA & ROMAGNA: QUALE RISTORAZIONE?


Sono passati ormai oltre trenta anni da quando in Francia il vento rinnovatore della “nouvelle cuisine”, termine coniato dai gastronomi Gault e Millau, ha cancellato o modificato radicalmente i principi della “haute cuisine” o meglio, della “cuisine classique”, indicando nuovi punti fermi per la ristorazione di qualità, su cui costruire una cucina moderna al passo con le trasformazioni sociali e del costume alimentare.
Gault e Millau raccontano come l’alta cucina, quella dei “Tournedos alla Rossini”, della “Sella di vitello alla Orlov”, per citare due dei piatti più famosi, venne codificata all’inizio del ‘900 nel libro di ricette di Escoffier, considerata la bibbia professionale per molte generazioni di cuochi francesi. Purtroppo, nella ricchezza dei piatti, tale cucina si è sempre presentata dogmatica e rigida che non lasciava spazio a sperimentazioni ma soprattutto la creatività dello chef era assolutamente bandita! Quasi sempre composta di piatti grevi, eccessivamente calorici, in quanto richiedevano presentazioni alquanto complicate, cotture e preparazioni prolungate con l’aggiunta di salse e fondi che nascondevano, nei peggiori dei tanti casi, mancanza di freschezza degli alimenti. Infine, una cucina che faceva largo uso di tecniche tipiche di periodi di penuria quali, salare, affumicare, marinare, conservare in grassi, oli, vino, aceto, etc., in quanto ignorava la tecnologia del freddo ed aborriva i moderni utensili di cucina.
 I cuochi della nouvelle cuisine si resero conto che questa cucina era ormai anacronistica e superata, che i gusti della clientela erano radicalmente cambiati, che non si poteva desinare più come una volta, per cui era necessaria “scoprire ed inventare” una cucina leggera e sana.
Al di là di eccessi francamente criticabili quali, le minuscole porzioni, l’abuso di spezie, portate con nomi inverosimili e decisamente troppo fantasiosi, ma soprattutto il mancato rapporto tra prezzo e qualità con cifre assolutamente irragionevoli, però bisogna rendere merito alla nouvelle cuisine di aver dato indirizzi che tuttora sono assolutamente validi ed applicati, che hanno avuto riscontro ben oltre i confini transalpini, influenzando profondamente anche il rinnovamento della cucina italiana: freschezza, leggerezza, semplicità, creatività e l’immancabile ricerca.
Una cucina moderna e di qualità fa sempre più uso di ingredienti leggeri, freschi e di prima scelta che ne assecondano l’avvicendarsi delle stagioni. Ricorre a cotture più giusti e corretti, utilizzando metodi soffici come quella a vapore che ne conservi al meglio l’intrinseco sapore naturale. Si avvale delle tecniche di conservazione del freddo e dei moderni utensili. Prepara i piatti all’istante e li compone cercando semplici armonie accostandone i primari sapori. Cerca presentazioni invoglianti con ricchezza di calde e tenue cromaticità per una ricchezza di gusto, piacevolezza ed esteticità. Dà spazio alla professionalità ed alla creatività degli operatori che, sperimentando, possano esprimere “arte e fantasia”. Fa ricerca aprendosi ed indirizzandosi alle diverse esperienze della gastronomia regionale e della tradizione storica, che con il loro incommensurabile bagaglio di ricette semplici, genuine, magari suscettibili di essere modificate, rivisitate ed immancabilmente “alleggerite” nei sapori e gustosi ingredienti. Non trascurare l’oriente, con le sue suggestioni di aromi, spezie e dai contrastanti sapori.
Su tali base si è sviluppata in Italia una cucina nuova, moderna, creativa ed estremamente originale, poiché questo è il patrimonio storico-regionale dal quale attinge, prodotto di pochi ristoratori e cuochi di grande professionalità che rappresenta la massima espressione di rinnovamento rispetto alla tradizione e che nell’Emilia Romagna è degnamente rappresentata.
 L’Emilia Romagna è quasi un continente, una regione che vive realtà diverse: ambientali, storiche e sociali.
Una regione che ha tre anime: i monti, i colli, la pianura, poichè tanto piatta da essere definita “bassa” in quanto forma, lungo il grande fiume un habitat che è, a tutti gli effetti, una sub regione, la Padania.
Il patrimonio enogastronomico è unico per varietà, ricchezza e fantasia con profumi ed i sapori del mare, dei monti, dei fiumi e della pianura stessa.
Un ambiente composito mai studiato unitariamente, ma sempre a compartimenti per cui, oltre alla storia, si è contribuito a creare le “patrie” ed è per questo che ci si ritrova con la doppia denominazione di emiliano-romagnole. Territori che sono stati etruschi prima e romani dopo, bizantini, altri longobardi e celti, con ducati, principati e signorie, ma sempre con un unico grande e determinante catalizzatore: la cucina.
Una cucina a volte regale e a volte popolaresca ma mai sciatta o approssimativa, in quanto sfumatura continua di ingredienti e di esecuzioni, sfumature che ritroviamo nei vini in una impressionante sequenza di tipi, sapori e bouquet.
Gli emiliani hanno saputo creare l’incredibile matrimonio tra dolce ed acido nell’aceto balsamico di antica tradizione canossiana di Matilde. Vantano nel parmigiano reggiano il miglior formaggio in assoluto. Hanno saputo elevare ad altissimi livelli la trasformazione della carne di maiale ed a livelli mondiali il vino più discusso: il lambrusco.
 La cucina dell’Emilia ha superato le vicende storiche conservandone le tracce nell’antichissima “crescentina”, sottile e piccola sfoglia fritta nello strutto, oppure nelle perfette rotondità della “tigella”, negli insaccati di Felino e di Zibello, piccoli borghi ricchi di gustose tradizioni, nel tradizionale tortellino, nelle ducali lasagne e nell’utilizzo della cipolla, dei fagioli e del porro: il tutto “maritato” a vivaci e solenni vini bianchi, rosati e rossi che consolidano il binomio uomo-cibo, uomo-vino.
Romagna, “regione” laboriosa, di ferie e divertimenti, rossa, anarchica, repubblicana nel senso storico della parola, che sfoggia anche l’arte-antica dei mosaici di Ravenna, antica e sempre attuale delle ceramiche di Faenza, un’economia fiorente col mercato ortofrutticolo di Cesena, il più importante d’Italia e di altre numerose realtà produttive.
A riguardo dei vini, chi è in Italia che non sa che quella faccia barbosa ed incappellata del Passator Cortese, Stefano Pelloni, sta a simbolo dei vini di Romagna? Credo proprio nessuno. Inoltre, al confine est di Imola, da sempre vi è il confine “naturale” che divide l’Emilia dalla Romagna: è un piccolo torrente dal nome emblematico, Rio sanguinario, in quanto considerato da sempre il punto di demarcazione tra le terre del Pontificato e quelle degli stati liberi.
Altro aneddoto curiosamente gustoso ed unanimemente riconosciuto, si riferisce al fatto che anticamente il viandante che percorreva le strade dell’Emilia se si fermava a chiedere da bere, si dava dell’acqua, mentre se era nelle terre romagnole, si offriva il sanguigno sangiovese certamente più piacevole e prelibato della “sana acqua di pozzo!”
Gianfranco Bolognesi, noto ristoratore romagnolo e caro amico, accuratamente suggerisce che in realtà quando si parla di cucina italiana, ci si riferisce ad un compendio di realtà regionali e locali codificato da Pellegrino Artusi nel famoso trattato di gastronomia ed altro “Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”: opera che ha rappresentato, non solo per i ristoratori, ma soprattutto per le famiglie, l’equivalente del testo di Escoffier.
Scorrendo le pagine dell’Artusi, emerge una cucina modesta, essenziale e popolare che unisce piatti pesanti con ricchezza eccessiva di sapori e gustosità e ricette dalla grande semplicità, invitante, ricca di sapori nella povertà di farinacei, pasta, polenta, legumi e poca carne, soprattutto maiale, pollame e cacciagione: tutto quanto in gran parte di origine contadina, nata dal bisogno di saziarsi arrangiandosi con poco, trasmessa oralmente di madre in figlia.
Una cucina semplice ma sicuramente accattivante che purtroppo, col tempo, nelle liste dei ristoranti e più ancora nelle abitudini domestiche, ha perso di varietà e brillantezza, appiattendosi in stereotipi sempre più logori ed innaturali. Ebbene, questo è il caso dell’Emilia Romagna di cui si è consolidata un’immagine di cucina grassa, un po’ pesante, opulenta: un’immagine forse non del tutto giustificata e veritiera se non dall’abuso che spesso viene fatto di burro, panna, besciamella, ragù e da alcuni piatti di carne lungamente lavorata. Negli ultimi anni tuttavia, stiamo assistendo ad una rivitalizzazione della tipica cucina emiliano-romagnola, che passa attraverso anche la riscoperta feconda di piatti della classica tradizione contadina che ormai andavano scomparendo. Una rivisitazione dei piatti più grevi o desueti ed infine la scoperta dell’esistenza di una cucina storica, spesso raffinata e leggera, patrimonio delle famiglie nobili.
Tale oggettiva e fattiva trasformazione che investe sia le trattorie di campagna, fedeli custodi di antiche tradizioni, sia quella generazione di giovani ristoratori, colti ed attenti alle trasformazioni in atto nella socialità di tutti i giorni, capovolge completamente lo stereotipo rimandando invece della cucina dell’Emilia Romagna un’immagine dinamica in costante e fattiva evoluzione, articolata e multiforme, per cui anche il passo tra la tavola e la cantina è decisamente molto breve.
 Vi sono amici che hanno fatto della passione per il vino e per il cibo un’importante ragione della personale esistenza, un elemento che integra e completa la propria professionalità: dai loro racconti, dalle loro storie ed esperienze, emerge un contesto in cui, giorno dopo giorno, si crea l’immancabile qualità.
La carta dei vini è preparata girovagando cantina per cantina conoscendone anche i più intimi dei prodotti che i vignaioli, con esperienza e sagacia, lavorano dalla vigna al vino stesso.
Medesimo discorso è veritiero anche per contadini, allevatori e casari che scelgono con cura i prodotti del territorio col sano principio di valorizzarne le rare ed uniche peculiarità, per una ricca e fattiva produzione all’origine. Inoltre, sempre più spesso, anzi la quasi totalità dei ristoratori stessi, vanno al mercato ogni mattina per avere sempre i prodotti migliori e più freschi a seguito di accurate e mirate scelte. Si utilizza solo pasta fatta in casa ed i dolci, delicatezze per un perfetto finale in cui tutto del desinare è stato perfetto, sono di loro produzione. Si cambia spesso il menù avendo un occhio di riguardo alla stagionalità e soprattutto provano nuove portate.
Importantissimo, cercano di migliore l’estetica e l’accoglienza del locale, tenendo presente anche quei minimi particolari che normalmente si ritengono trascurabili e di poco impatto coreografico. Cercano di coinvolgere attivamente il cliente, in quanto consapevoli che nel momento in cui entra nel ristorante devono riuscire ad offrirgli qualcosa di speciale, fuori dall’ordinario e renderlo partecipe di una rappresentazione in cui anche solo una nota stonata sarà, purtroppo, maggiormente considerata rispetto a tutto quanto di positivo ed accattivante sarà offerto dal ristorante stesso.
In altre parole, vi è sempre uno sforzo sempre più propositivo verso un costante miglioramento e consapevolezza che soltanto attraverso un buon rapporto con i fornitori, il personale in toto ed l’avventore del locale, si può costruire un circolo virtuoso in cui soddisfazione e piacevolezza del proprio operato si autoalimentano determinando un successo duraturo dell’attività stessa.
Dai primi, pochi singoli e specifici casi in cui questo risultato è stato pienamente conseguito, si è giunti, via via sempre più, ad una quasi totalità di ristoranti in cui le maestranze credono nel proprio operato, anche perché, determinante, il ristorante è una delle aziende più difficili da gestire.
In queste poche righe in cui si è cercato di interpretare e comprendere la “buona“ ristorazione, le incoerenze, contraddizioni, stonature e non sempre l’immagine di un chiaro successo economico, ma è, giustamente, una realtà che merita di essere valorizzata, poiché più di altre porta visibili i segni di un costante sforzo di ricerca dell’ottimo e della qualità.

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